Ottobre 2003

"Sono di nuovo rientrata nella realtà di sempre, la dimensione onirica si è dileguata come una bolla di sapone che brilla al sole e, prima di dissolversi, mostra i colori dell’arcobaleno. Santo cielo, una lampadina si illumina nella mia mente! Ho dimenticato del tutto che devo ritirare l’esito della mammografia, sono passati tre giorni da quello indicato..." di Cristina Braccini

Ottobre 2003

Siamo già a ottobre: guardo il calendario per vedere quando ho l’appuntamento con la ginecologa che, da undici anni circa, due volte l’anno, controlla il mio utero bizzarro che nel 1990 è stato ben tagliato e ricucito come la testa di quei burattini di lana ai quali, per dare una bella forma rotonda, viene tolta la parte in esubero e ricuciti con cura! Il giorno è arrivato: l’ambulatorio è pieno per lo più di puerpere, si aspetta sempre molto prima di entrare, perché lei non solo è un bravo medico, ma una donna che cerca di capire i tuoi problemi e perciò le sue visite si allungano nel tempo. Quasi nessuna però si lamenta di questa estenuante attesa, perché sa che quando sarà il proprio turno sarà visitata e soprattutto ascoltata. Ecco, sto per entrare nello studio, ci salutiamo con un bacio affettuoso, sono tranquilla: lei è l’unico medico di cui io mi fidi ciecamente.

I fibromi sono di nuovo cresciuti, ma sono sotto controllo, si aspetta la menopausa e Dio mio che segno di vecchiaia, ma per lo meno sono salva, non dovrò subire un ulteriore intervento. Mentre mi spoglio, dietro il paravento, in silenzio mi domando quando arriverà la menopausa. Provo sentimenti contrastanti: gioia da un lato e malinconia dall’altro. Il tuo corpo invecchia e tu spesso ti senti ancora giovane, è possibile che sia così anche per me? Tutto sembra sempre accadere agli altri…

Secondo la dottoressa sono ancora molto lontana dalla cessazione del ciclo, perciò non mi resta che aspettare! La visita finisce con la palpazione del seno, non sono mai molto preoccupata per questo, perché mi fido in maniera completa di lei e dei suoi consigli, perché la ritengo un’ottima diagnostica e un medico estremamente scrupoloso. L’esito è negativo. Ho 51 anni, anche se non mi sembra credibile è così perciò è l’ora di fare una mammografìa e un’ecografia al seno, mi prepara le richieste mentre mi rivesto. Ho il viso in fiamme, la saluto e mi congedo pensando che mi sta andando tutto bene!

Non lascio passare molto tempo per fissare gli appuntamenti per le indagini suggerite, così il 13 di ottobre sono in sala d’attesa per fare la mammografìa. L’esame è un tantino doloroso, le mammelle vengono come strizzate e a momenti pensi: aiuto non lo sopporto, poi un dubbio preoccupante mi attraversa velocemente la mente, lo scaccio e mi concentro su ciò che mi suggerisce la tecnica radiologa. È finito; sono in sala d’attesa e aspetto il nulla osta per andarmene, passano dieci minuti nessuno mi dice niente, mi sento l’ansia che mi cresce, vedo uscire la radiologa e le chiedo se posso andare, mi guarda e ho la netta sensazione che si sia dimenticata di me, comunque mi da l’ok. Finalmente esco, sudo freddo, ma nonostante tutto sono abbastanza tranquilla perché, tante fra le mie conoscenze, mi avevano assicurato che quando vedono ”qualcosa” ti trattengono subito, quindi se mi lasciano andare… però non si è mai del tutto tranquilli! Torno al lavoro e dimentico quegli attimi di angoscia, pensando che è privo di logica il mio senso di inquietudine.

Sono di nuovo rientrata nella realtà di sempre, la dimensione onirica si è dileguata come una bolla di sapone che brilla al sole e, prima di dissolversi, mostra i colori dell’arcobaleno. Santo cielo, una lampadina si illumina nella mia mente! Ho dimenticato del tutto che devo ritirare l’esito della mammografia, sono passati tre giorni da quello indicato. Pazienza, mi riprometto di passare l’indomani dal Centro per la prevenzione oncologica.

Con il casco in mano e la ricevuta prendo il numero e tranquillamente aspetto il mio turno. Ecco un’impiegata: prende la mia cedola e inizia a cercare la mia fra le centinaia di risposte. Parla con i colleghi e intanto sfoglia e mi richiede più volte il cognome. Ha finito, non l’ha trovata.

Scusandosi, mi dice che sono tante e potrebbe esserle sfuggita .

Sudo, ma un brivido freddo mi attraversa la schiena: un leggero panico si sta impossessando di me.

Cerco di convincermi che non l’ha vista, perché sono veramente troppe!

Non la trova nemmeno al secondo tentativo.

La paura si trasforma in terrore, l’ansia mi sta soffocando!

Parla ancora con una collega che le dice di guardare in un’altra cartella.

Non ho più saliva, il cuore batte all’impazzata: il presentimento si trasforma in reale cognizione: la ragazza alza gli occhi dalla cartella, ho la vista appannata, ma vedo il suo sguardo. Mi faccio violenza, devo smettere di tremare, mi sta dicendo che mi hanno cercato tanto e che non trovandomi, mi hanno spedito una raccomandata.

Mi invita a salire al piano superiore dove mi daranno ulteriori spiegazioni. Ho il corpo di piombo e sento la sua voce amplificata come fossi dentro una tuta da palombaro.

La seguo di sopra come un automa, un infermiera conferma che non mi hanno trovata e aggiunge che la diagnosi è di microcalcificazioni diffuse. È necessaria un’ulteriore mammografia di ingrandimento per avere una diagnosi precisa. Mi siedo, sento la sua voce lontana come venisse da un altro mondo, la voce fissa l’appuntamento per la prossima indagine, mi mette in mano un foglio con l’ora e il giorno.

Sono completamente frastornata, la testa mi scoppia, mille pensieri mi attraversano la mente: non è possibile, non è giusto, vorrei urlare, ma come in sogno la voce non sembra volerti uscire.

Sono terrorizzata, cerco di farmi forza e rifiuto di farmi accompagnare per scendere le scale. Senso di vita spezzata.

Da quel momento ha inizio il mio calvario.

Arriva il giorno fissato della mammografia ingrandita ed ecografia: ci sono due medici donne, cercano di confortarmi mentre agitano sul mio povero seno lo strumento dell’ecografia: non sono convinte, c’è qualcosa che le preoccupa, finalmente concludono l’esame. Mi dicono che sicuramente si dovrà indagare ancora.

Ecografia e ingrandimento della mammografia non bastano per una diagnosi precisa così mi preannunciano che dovrò sottopormi ad un esame un po’ più invasivo, che si chiama mammotone: paura. Mi danno un appuntamento abbastanza ravvicinato: dovrò tornare nel Centro del viale Amendola fra circa 10 giorni. Il giorno dopo però mi richiamano per avvisarmi del cambiamento di data e di luogo per l’esame, occorre uno strumento più preciso, perciò dovrò recarmi in Viale Volta.

Sono nella sala d’aspetto del Centro Oncologico, sto aspettando di essere chiamata per sottopormi al mammotone: ricerca più approfondita che segue il già avvenuta esame della mammografia ingrandita associata all’ecografia. È quasi la fine di novembre e ancora non so niente di preciso. anche se dentro di me si fa sempre più strada un brutto presentimento.

Ignoro in cosa consista esattamente questa indagine, non ne ho mai sentito parlare. Mi sento impotente, in balia di un destino crudele che mi perseguita. Ho paura: sto per entrare al C.S.P.O.

Ogni volta che oltrepasso la soglia di questo istituto ho le mani e i piedi freddi, completamente madidi di sudore.

Accanto a me c’è mia sorella: cerca di farmi coraggio, rimuove, non vuole accettare che possa accadermi qualcosa, ma sento la sua ansia e la sua angoscia. Inconsciamente vuole convincere anche se stessa, oltre che me, dell’impossibilità che possa risultare qualcosa di molto negativo, proprio alla sua cara sorellina che ha accudito fin dalla più tenera età.

In quei momenti, di attesa terribile, ripenso al giorno del ritiro mancato della mammografia, quando, uscita fuori, ho inforcato il casco e in preda a un attacco di panico, meccanicamente ho messo in moto lo scooter, mi sentivo sola in mezzo al traffico, mentre lacrime miste a sudore mi solcavano il viso.

L’ansia mi divora, mentre ripenso al viso dell’infermiera. Tornata a casa, mi sono attaccata al telefono e ho chiamato la ginecologa: leggo il responso, mi ascolta attentamente, infine mi suggerisce di calmarmi perché probabilmente, dato che 1’80%delle donne presenta questo problema, generalmente non è mai patologicamente importante.

Mi sono seduta al buio e ho provato a fare la respirazione profonda: il mio battito si fa più regolare, smetto di sudare. Sono un po’ più calma, ma nessuna parola mi convince,

Cara amica. Leopardi parla dell’illusorietà della felicità umana, possibile solo come aspettazione di una gioia o come fine di un dolore, parla del sabato, giorno che precede la festa e che racchiude in sé le aspettative più profonde, i desideri che agitano le nostre anime e i nostri cuori. ”Diman tristezza e noia recheran le ore”... Quante aspettative! Quanti film mi sono costruita!

È il 20 di novembre 2003, sono in sala di attesa, riempio il foglio, dove dichiaro che mi sottopongo all’esame sotto mia completa responsabilità: il sudore mi invade, un sudore freddo le cui gocce scivolano lungo la schiena senza fermarsi, la mano trema… mentre firmo, sento che succederà qualcosa…

Sono dentro la stanza con una dottoressa e un’infermiera, mi fanno distendere bocconi su un lottino che è provvisto di due grosse aperture all’altezza del seno, il seno sinistro viene infilato nel foro apposito e la dottoressa con uno strumento simile a un trapano, seguendo la mammografia ingrandita, mi preleva, dopo anestesia locale, dei pozzetti di ghiandola mammaria che si chiamano frustoli e l’infermiera li raccoglie in un piccolo contenitore. È un esame invasivo e doloroso e credo che le donne dovrebbero essere informate esattamente su tutto quello che viene eseguito sulla loro pelle.

Le lacrime mi scendono da sole, non vorrei, ma è un riflesso non controllato per paura, ho voglia di scappare!

È finito, ritorno supina e poi seduta, ma avviene un fatto particolare: mi esce moltissimo sangue dal grosso foro praticato per infilare l’ago, cercano di fermare questa piccola emorragia, alla fine mi viene messo un grosso sacchetto di ghiaccio sulla parte e una fascia e mi mandano in sala di attesa. Passano alcuni minuti poi mi viene detto che posso andare e che per avere l’esito ci vorranno circa 20 giorni e con il sorriso sulla bocca mi dicono di non telefonare perché saranno loro a chiamarmi!

Il pomeriggio mi continua a uscire il sangue a mo’ di cannella, con me c’è solo mia sorella molto spaventata, mio marito non si è visto, né si è informato di come è andata. Maria, agitata e sconvolta, corre in farmacia a comprare delle garze, nel frattempo arriva T., il mio medico curante, che non solo mi controlla, ma mi consola con il suo bizzarro umorismo, rimane con me fino al ritorno di mia sorella, raccontandomi di suo padre e dei suoi tanti fratelli e sorelle: otto! Per questa sua delicatezza non solo gli sono grata, ma gli voglio bene! Devo stare distesa sempre con il ghiaccio applicato sopra la mammella sinistra. L’emorragia si ferma solo a tarda sera, sono stremata.

23 dicembre 2003 la dottoressa mi dà il responso: iperplasia duttale con malignità incerta, si richiede biopsia chirurgica. Mi consola… lei sa già che dovrò fare una mastectomia, perché mi parla di chirurgia plastica. Sono seduta sulla sedia dove lei mi ha fatto accomodare, mi sento come sdoppiata, come se non fosse possibile che stesse capitando a me, la guardo con gli occhi vuoti perché il mio cervello cerca possibili scappatoie, non è la realtà, è un sogno, so che mi risveglierò… ma non è stato così!

Prima di andarmene, devo farmi iniettare del carbone con una grossa siringa, dove si presuppone che le microcalcifizioni siano più concentrate e si possano meglio individuare ai momento della biopsia.

Sono frastornata, mia sorella piange, mi danno un foglio in mano, è una lista di chirurghi a cui rivolgermi, mi fanno gli auguri… usciamo… domani è la vigilia di Natale… non c’è che dire ho ricevuto un bei regalo! Mio marito non c’è, come al solito, sembra quasi indifferente riguardo a tutti gli esiti degli esami. Ho un cancro, ma lui sembra distaccato. Infatti non passerà un anno da questo colpo o - come dice nel suo intervento all’inaugurazione di villa delle Rose la psicologa Marina Bertoletti, un terremoto mentale, da cui è quasi impossibile risollevarsi- che lui mi infliggerà un colpo ancora più grosso capace di distruggermi psicologicamente.

Siamo sull’autobus di ritorno a casa, ho voglia di piangere, mi sembra che tutti siano felici; pensano alle vacanze natalizie, ai regali... riesco a mala pena a capire dove mi trovo, sì, ho la busta in mano con le radiografie e tutti i fogli annessi, chissà forse questo responso non è il mio… Perché continuo a chiedermi dove sono finiti i miei mocassini rossi? Non riesco a ricordare, forse dal calzolaio, o forse li ho riposti nel ripostiglio… ma lì ho cercati tanto… Mia sorella suona il campanello dell’autobus: è la nostra fermata; ci incamminiamo, lei farfuglia fra le lacrime qualcosa, comincio a camminare velocemente, fa freddo, le ventate gelide mi sferzano il viso, ma non le sento perché dentro mi sento bollire come un vulcano che sta per eruttare. A casa mi fiondo nel ripostiglio, metto tutto sotto sopra, cerco le mie scarpe… calde lacrime scendono sulle mie guance scavate dalla disperazione… cerco, cerco… ma cosa sto facendo… i mocassini li ho buttati via… ecco perché non ci sono più… è la Cristina che non c’è più!

Per diversi giorni la mia vita è simile a quella di un automa: sono io in carne e ossa, ma mi sembra di vivere la vita di un’altra persona, vado in qua e là presa dal vortice della ricerca affannosa del chirurgo più famoso per i tumori al seno, non mi pongo nemmeno il minimo dubbio: è lui, C., sfodero le mie conoscenze per farmi ricevere più presto possibile. G. mi accompagna insieme a mia sorella e a M.- mia cognata - che conosce il mitico chirurgo.

L’appuntamento con il medico è alle 15.30, nella sala d’attesa G. legge attentamente una rivista, lo guardo e penso che quello è il suo modo di difendersi dal dolore, non riesce a dire nulla, non riesce neppure in silenzio a prendermi la mano per confortarmi. Avrei desiderato che non si fosse seduto sull’altra fila di sedie, ma vicino a me e, fra le sue mani, avesse tenuto le mie, anziché il giornale! Il suo essere alessitimico e cioè vivere nel distacco emotivo, è un meccanismo mentale automatico, messo in atto per difendersi dalle emozioni dolorose! Voleva difendersi dal dolore per il risultato del mammotone?

Non era così, forse era preoccupato per me, ma lo era ancora più per se stesso! Nella sua mente e nel suo cuore giravano vorticosamente una serie di pensieri contrastanti di cui solo ora mi rendo pienamente conto.

Lo giustificavo perché pensavo non fosse mai riuscito a manifestare le sue vere emozioni: ho sempre creduto che fosse sensibile, ma che questa sensibilità fosse imprigionata nella corazza che si era fatto nell’infanzia e nell’adolescenza per sfuggire ad una educazione rigida, ma soprattutto un’educazione dove l’amore, l’affetto non dovevano essere dimostrati. Sentimenti, emozioni, paure, gioie non si mostrano, ma a tutt’oggi, dopo tutto quello che è successo, mi chiedo se avesse davvero delle difese oppure niente lo commovesse sul serio. Oggi sono sicura che l’atteggiamento di mio marito non era una difesa, forse noncuranza, indifferenza, estraneità, impassibilità; era lì con il corpo, però la sua mente, i suoi pensieri più profondi andavano verso altri lidi, mentre io stavo traversando il momento più difficile della mia vita.

Entriamo dentro lo studio del professore che ci accoglie con la freddezza che lo caratterizza, ci sediamo e comincio a esporre il problema: ho la voce fievole, quasi mi sembra impossibile parlare, mi sento come fossi al di là di un vetro e stessi guardando una scena che non mi appartiene, di cui io non sono la protagonista, forse la semplice osservatrice: è tutto come appannato… Lo specialista osserva la mammografia e senza parafrasi dice che il caso è molto difficile e che sospetta essere un tipo di tumore e come già sapevamo, per essere sicuri è necessario sottopormi alla biopsia chirurgica prima di decidere se effettuare o no la mastectomia. Prima di congedarci, il professore mi propone un consulto con altri medici fra cui il Prof. C. primario oncologo del CSPO, perché evidentemente il mio è un caso difficile, lo ha definito tale anche C. Che altro potrei fare se non acconsentire, sono ormai in mano sua, devo per forza accettare, non mi rimane altra scelta. Usciamo, non paghiamo niente, data la conoscenza del professore con la Sig P. - suocera di mia cognata - mi ha dato tutte le indicazioni per fissare a Villa Nova, il primo di una lunga serie di interventi. Il viso in fiamme, un caldo freddo mi attraversa corpo: l’aria è gelida, mi stringo nella giacca a vento, cerco un po’ di calore mentre guardo le facce dei miei… solo mia sorella ha gli occhi lucidi, M. sembra un po’ dispiaciuta, G… non riesco a ricordare la sua faccia, anzi non ricordo nemmeno se era presente! Ma dov’era finito… sì, forse una riunione! Sforzo la mente, voglio ricordarmi dov’era… non ci riesco… ricordo solo che sul marciapiede davanti allo studio non c’era più, c’era solo una immensa disperazione e in freddo gelido: era il 5 gennaio 2004.

Parlando ci incamminiamo verso casa, prendiamo un caffè… e G. no, non c’era più! Non c’era più fisicamente ma spiritualmente non c’era mai stato, so dov’era, stava pensando a com’era sfortunato perché quello che per me avrebbe dovuto essere un atto che segnava un svolta, per lui era invece segno di dover rimanere vincolato a me per sempre, voleva scappare, aveva trovato il modo ed ecco che per sua disgrazia un’altra malattia mi aveva colpito e lo costringeva a rimanere, proprio ora che aveva trovato la strada per andarsene, proprio ora che c’era qualcuno che gli apriva tutte le porte per la realizzazione del suo sogno di rifarsi una vita, una donna che dopo tante sotterranee ricerche aveva avuto la fortuna di incontrare.

Ecco che il tumore lo ha fermato, ma che prezzo per me!