5 Dicembre

"Sta nevicando. Fiocchi densi scendono senza sosta su tutto il paesaggio. Un bianco lenzuolo gelato che si stende sul mondo, nascondendo i contorni delle cose. Io, protetta dalle mura dell’ospedale dove mi trovo, guardo fuori dalla finestra e il freddo di tutta questa neve che cade invade il mio corpo..." di Donatella Bartolozzi

 

Dicembre 2005

5 dicembre

Milano, centro europeo di oncologia.

Mi trovo nella stanza dell’ospedale, Carcinoma al seno sinistro.

Non può essere vero. Non mi sento in questo corpo sfregiato dall’intervento.

 

Ero un uccello in volo,

una rondine,

e volavo libera e leggera insieme alla mia

vita che si snodava intorno ad un amore finalmente raggiunto.

Poi il colpo.

Non posso più volare.

Mi hanno tagliato le ali.

Sta nevicando. Fiocchi densi scendono senza sosta su tutto il paesaggio.

Un bianco lenzuolo gelato che si stende sul mondo, nascondendo i contorni delle cose. Io, protetta dalle mura dell’ospedale dove mi trovo, guardo fuori dalla finestra e il freddo di tutta questa neve che cade invade il mio corpo.

Sono sola nel centro di questo infinito dolore.

Non ho paura, non sento niente, sono immobile. Sono sconfitta.

Mi guardo allo specchio e cerco la donna che ero prima dell’intervento.

Non la trovo nell’immagine riflessa, mi sembra di non esserci più.

Di essermene andata insieme al mio seno asportato.

Adesso la mammella sinistra è solo un vuoto, è niente e la sua mancanza per me è totale. Resta solo una cicatrice che non si limita al seno che c’era.

Mi attraversa completamente. Sono una ferita che non risarcisce, mi sento sola e non riesco a manifestare il mio dolore. Lo nascondo, minimizzo, nel vano tentativo di essere accettata e di non pesare sugli altri.

 

In ospedale mi guardo intorno e vedo donne che come me stanno attraversando il vuoto. Mi colpiscono come schiaffi i drenaggi, i foulard che coprono le teste rasate, i volti dai quali esce l’urlo dello strazio. E provo dolore. Ho paura, paura di essere una di loro, di non tornare ad essere la donna che ero.

Ho due possibilità, due soltanto, non posso sbagliare la scelta.

Arrendermi o lottare. E scelgo di lottare.

Inizio a guardare oltre il mio dolore, non voglio abbandonarmi, voglio tornare a vivere e fingo che tutto vada bene, che non sia successo niente.

 

Ostento una forza che sento indebolirsi giorno dopo giorno, mi comporto in modo che nessuno si ricordi il mio intervento e la mia mutilazione.

Così spero di dimenticarla anch’io.

 

Attraverso uno sforzo immenso mi impegno a condurre una vita normale, curando il mio aspetto esteriore: curo i capelli, il trucco, la pelle del viso. Non riesco però a guardare mai il mio corpo e con lui il seno. Mi sento sfregiata e questo mi provoca un dolore fittissimo che spesso, si scioglie in lacrime asciutte che spesso nascondo anche a me stessa.

Guardo con invidia i seni simmetrici delle altre donne, la loro possibilità a diventare mamme, il loro sentirsi giuste con un ciclo mestruale.

Io niente di tutto ciò. Mai più.

Abbandono per un periodo consistente il lavoro, le mie giornate sono fatte di solitudine, guardo senza vedere tutto ciò che mi circonda.

 

Mi piego sotto il peso di questo dolore, come una bambola di pezza. Mi rialzo.

Cado di nuovo, tante e tante volte. Ma ad ogni caduta riesco a tirarmi su.

Ho promesso a me stessa di farcela e cerco di mantenere la promessa.

E inizio a guardare il cielo nella sua promessa di infinito. Mi stringo a tutte

le persone che mi amano e mi ascoltano e traggo da loro sostegno ed energia.

Ma la prova di forza e coraggio non è finita e l’uomo che amo mi abbandona: per me una nuova amputazione.

Vivo il suo distacco come una punizione, come se dovessi espiare una colpa imperdonabile visto che sono una donna malata, che non può avere figli e su il cui corpo ci sono i segni che rendono imperfetta.

Esce da dentro di me l’urlo della rabbia che mi lascia prostrata e senza difese.

Allora chiedo aiuto e proprio in ospedale, il luogo che muove in me angoscia e terrore, trovo la strada per risalire. I medici mi ascoltano, comprendono la mia fragilità e il mio dolore. Mi consigliano di frequentare un corso di yoga, seguire una terapia di sostegno psicologico, fare sport. Mi prospettano la possibilità di sottopormi ad un intervento di chirurgia plastica.

Non è facile ma voglio tentare e anche se ho paura seguo i loro consigli.

È molto faticoso, spesso il dolore è più forte della volontà, allora piango lacrime che scottano e riprovo il freddo sofferto in sala operatoria.

Un freddo che ogni volta che ho paura arriva puntuale.

La terapia psicologica scioglie pian piano i nodi del mio dolore.

Inizio a ritrovare me stessa e quindi la consapevolezza di chi e di quanto sono. Imparo ad elaborare l’esperienza del tumore, fatta di dolore, incertezza, sensi di vuoto. Comincio a guardare quel seno che giorno dopo giorno inizia a far sempre più parte di me: lo accarezzo, imparo ad amarlo e capisco che è grazie a lui che oggi sono una donna nuova e migliore.

Percepisco a piccole dosi che sono una donna forte, vera, senza limiti.

Capisco che il ricordo del dolore mi sarà spesso accanto ma non invano, anzi, servirà ad amplificare tutto quello che di bello la vita vorrà offrirmi.

Dopo tre anni dall’intervento mi sono tornate le mestruazioni.

Ho pianto per ore, senza tregua, senza percepire chiaramente il sentimento che mi pervadeva.

Quelle gocce di sangue mi hanno ridato la speranza, mi hanno battezzato di nuovo donna.

Non mi vergogno più del mio seno, dei segni che lo caratterizzano, capisco che mi rendono unica e irripetibile come ogni caratteristica che mi appartiene.

Sorrido, sono di nuovo viva.

Sono ancora quella rondine che vola libera, leggera e adesso ancora più in alto.

 

Aprile 2009

 

Un grazie di cuore

alla dott.ssa G.

al dott. M.

alla dott.ssa M.

 

e a tutti i medici e operatori

che lavorano

al progetto

“Donna come prima”