Il passo del tempo

"Poi al buio, stesa nel letto, il sonno non arriva e il terrore mi assale di nuovo, come tanto tempo fa.

Non voglio sapere nulla, non voglio andare da nessuno. Tanto non sarà niente.

Niente. Sono guarita!.." di Susanna Benvenuti

Il trillo della sveglia mi fa riemergere dal sonno pesante del primo mattino. È ancora buio e il freddo fuori dalle coperte è fastidioso.

Ma è già tardi. In cucina mi muovo svelta, riproponendo gesti così consueti che mi stupisco a compiere senza rifletterci. Metto su la moka per il caffè, scaldo il latte.

Apparecchio con tre tovagliette di bambù. Anche queste andranno cambiate: sono scolorite e qualche traccia di briciola rimane ormai intrappolata tra le stecche. Le tazze, quelle solite, dove sono? Sono sporche, nella lavastoviglie che nessuno ha avuto voglia di avviare ieri sera. Accendo la radio in tempo per il notiziario delle 7, mentre inzuppo una fetta biscottata nel caffellatte. Poi preparo la borsa, ma le chiavi del motorino dove sono finite? Ci sono le bollette da pagare che devo prendere, già lo devo segnare sull’agenda. Oggi è mercoledì! C’è anche il seminario da seguire. Con

l’ospite americano da portare a pranzo fuori. Lascio un biglietto per Duccio e Bianca, tanto non saranno qui per pranzo, ma almeno la spazzatura... e che diamine! La portino giù!

Infilo veloce il piumino, con la borsa da una parte e la cartella dall’altra. Ripasso mentalmente gli appuntamenti della giornata, mentre scendo di corsa le scale. Stasera anche Teresa e Simo a cena qui! Farò un po’ di spesa tornando dal laboratorio.

Alle otto e trenta arrivo al lavoro e il laureando mi aspetta già seduto davanti alla mia scrivania per riguardare gli ultimi dati da inserire nella tesi. Mi piace questo laureando, attento e pieno di aspettative per il dopo. Metà mattina scorre veloce. Poi c’è da rivedere l’inglese del lavoro da spedire e continuare a preparare il progetto per il Ministero con la scadenza ormai vicinissima. Uffa! Forse adesso ci vorrebbe un caffè. Mi appoggio sulla scrivania per afferrare il portafoglio... e una sensazione dolorosa al seno destro mi colpisce all’improvviso. Cos’è? Mah, sarà la vecchia ferita.

Scendo al bar e mi godo una pausa davanti ad una tazza, conversando col collega che ha invitato l’americano per il seminario di oggi. Concordiamo dove poi portarlo a pranzo. Di corsa, perchè il pomeriggio lui sarà a lezione e io devo avviare un esperimento per domani. E devo ancora studiarmi il protocollo.

Torno in laboratorio e passo a refertare i risultati degli esami della prima mattina.

Quanta gente nell’ambulatorio. O che stanno tutti male?

Mi muovo rapida davanti allo strumento dei dosaggi ematici. È finita la carta della stampante e qualcuno ha sistemato la risma troppo in alto. Mi allungo per prenderla e di nuovo quella fitta dolorosa. Mi premo la mano sul seno. Ma cos’è… questa pasticca dura… sotto la pelle… Ma che c’entra… fa male… non sarà niente. Mi sale un po’ di ansia.

Di quella che credevo appartenesse ad un periodo passato. Sette anni. Una storia vecchia e poi tutti me lo hanno detto: “Sei guarita”. Ho finito anche l’ormone terapia!

E poi adesso devo scendere nell’aula per il seminario.

La giornata finsice alle cinque e mezzo. Passo al volo dal supermercato. Farò un piatto unico per le mie amiche. I miei figli mi hanno già comunicato che non saranno a cena a casa, col pretesto che tanto io ho ospiti.

Una serata come al solito con le mie amiche, piacevole. Di complicità estrema tra noi, amiche dal liceo. Il problema del giorno è l’ex marito di Tere che non si occupa abbastanza dei loro figli e il prossimo esame di stato del figlio di Simo. Parliamo di noi, delle nostre vite un po’ di corsa, ma stasera il passo e un po’ più lento, finalmente.

Poi al buio, stesa nel letto, il sonno non arriva e il terrore mi assale di nuovo, come tanto tempo fa.

Non voglio sapere nulla, non voglio andare da nessuno. Tanto non sarà niente.

Niente. Sono guarita!

Il giorno dopo sono di nuovo di turno per l’assistenza e quando arrivo con l’ambulatorio strapieno, i prelievi ematici già sono sul bancone del laboratorio.

Poi d’improvviso la consapevolezza che devo sapere. Che non posso fare finta di niente. Anche qui ho bisogno di un conforto femminile. La mia amica Silvia al CORD mi sostiene e cerca di confortarmi. Mi avvio col cuore che sembra battere più pesantemente, una paura che mi gela la punta delle dita e mi fa prospettare scenari futuri inquietanti. L’ecografia è rassicurante e l’agoaspirato quasi lo chiedo io. Non c’è da preoccuparsi. “Certo con la tua storia… hai fatto bene a venire… ad indagare, ma stai tranquilla”. Aspetto rassicurata, almeno in parte, l’esito dell’analisi istologica.

La vita scorre al solito, di corsa. Poi un venerdì mattina, una quindicina di giorni dopo, arrivo al lavoro e mi fermo a programmare una revisione di un lavoro fatto in collaborazione con due giovani colleghe. Loro sono carine e scambiamo qualche battuta rilassate. Si affaccia il mio collega e mi chiama. La sua faccia è terribile. Non dice niente. Ma io capisco in un lampo cosa mi vuole dire. Mi avvicino. Lui mi sussurra quasi che c’è di nuovo un tumore. Maligno. Invasivo. E queste parole si

abbattono su di me come una scure. Mi lascio cadere su una sedia e gli getto in faccia il camice che stavo per infilare. E piango, urlando con una voce che ascolto come se non fosse la mia: “non è possibile e ora che faccio con tutto quello che ho da fare? E come faccio a dirlo ai miei figli, di nuovo?”. Mi confonde, una nebbia mi vela la mente. Mi sostengono, mi accompagnano dal chirurgo, dal primario. Cerco di far funzionare la razionalità, ma non ce la faccio e questa perdita di controllo mi annienta. Non ci sono abituata. Altri programmano tutto quanto: preoperatorio -intervento - accertamenti da fare. Mi ritrovo in un vortice e per qualche giorno non parlo con nessuno, tengo tutto per me, cerco di riacquistare un po’ di lucidità. Ma è difficile. Una sensazione di incertezza che mi destabilizza. Non sapere in quale situazione di gravità mi trovo mi annienta. Poi piano piano comunico la notizia ai miei figli, alle amiche. Mi sostengono, tutti. Ma sono tutti scossi. E io ho più paura della loro paura e dei loro pianti che delle informazioni sulla mia situazione che tutti i medici si affannano a darmi.

La vita si ferma e prende un passo diverso, dettato dalla malattia, dal fisico che risponde poco, dalla testa che sta dietro al corpo e che male si abitua a questo nuovo ritmo. L’agenda diventa improvvisamente scarna. Se la sfoglio trovo appuntati solo visite, controlli, esami. Per il resto è bianca. È solo la malattia adesso a scandire i tempi. Il dolore fisico che accompagna queste lunghe giornate del post operatorio mi immobilizza e mi fa ascoltare con orecchio diverso i bisogni del corpo. Mi guardo a fatica nello specchio e ogni mattina mi stupisco sempre non riconoscendomi immediatamente, senza riuscire mai a pieno ad abituarmi a questo nuovo aspetto. È difficile sforzarsi di “guarire” con questa mutilazione da una parte e con questo bottone metallico sottopelle dall’altra che mi tiene a mente che le terapie “Salvavita” sono appena cominciate. Sono confusa. La paura e il senso di precarietà sono i sentimenti preponderanti di queste ore.

Poi la mia amica psicologa mi prenota un incontro dalla psiconcologa. Non ci voglio andare, ma la paura mi paralizza spesso nell’arco della giornata. Mi annienta pensare che forse il futuro per me sarà limitato e m’incanto a fantasticare su come farò se dovrò lasciare i miei figli. Che dolore!

Gli incontri mi fanno bene, benissimo. È come imparare ad ascoltare e soprattutto ad apprezzare una nuova dimensione del tempo. Provo a recuperare spazi per me e per le mie emozioni. Ma dove stavano tutte queste emozioni fino a ieri? Mi insegnano ad incanalare e a riconoscere le mie emozioni. La chemioterapia mi distrugge il fisico. È dura. Tutti quegli occhi omologati, senza ciglia, né sopracciglia, spenti, che sono con me nel reparto mi risucchiano ogni volta in questo baratro di morte. E ogni volta penso che non ce la farò a riemergere da quel sapore di morte nella bocca, nella pancia, nelle gambe e nella testa. Agli incontri individuali si affiancano quelli di gruppo. E qui il miracolo accade: trovare e incontrare donne che stanno vivendo esperienze di cancro come me aiuta in maniera magica. Senza retoriche e luoghi comuni, ma momenti di verità, compartecipazione e buonumore. E questo spazio va difeso con i denti, uno spazio mio, dove il tempo scorre in fretta per il piacere del momento, ma è un tempo lungo da dedicarmi, impensabile qualche mese fa. Il passo della mia vita si allunga. Una nuova consapevolezza del tempo, così

prezioso, si fa strada e tendo a dilatarlo. Come fanno gli anziani. Forse per la stessa coscienza che quando il tempo o è poco o è comunque prezioso, bisogna cercare di allungarlo all’inverosimile per farlo durare. E riuscire però a gustarlo secondo per secondo. Anche con la lentezza dei gesti abituali. E la vita diventa quella che vivo ora, nella mia presente eternità.