A spasso con it

"Tutto ha avuto inizio nel giorno in cui la Costa Concordia, la nave da crociera con 4200 passeggeri a bordo, è naufragata al largo dell’isola del Giglio. Nel pomeriggio di quello stesso giorno anche la mia vita è naufragata nel centro di prevenzione oncologica, in cui mi è stata data la notizia della presenza di una massa tumorale di ben 10 cm al seno destro..." di Francesca Camisoli

Chi è it ?

  1. It. Esso/a. Pronome personale neutro singolare in lingua inglese.
  2. E’ il nome che ho dato a questa roba che mi sta crescendo dentro.

Tutto ha avuto inizio nel giorno in cui la Costa Concordia, la nave da crociera con 4200 passeggeri a bordo, è naufragata al largo dell’isola del Giglio. Nel pomeriggio di quello stesso giorno anche la mia vita è naufragata nel centro di prevenzione oncologica, in cui mi è stata data la notizia della presenza di una massa tumorale di ben 10 cm al seno destro. “Va tolto” mi è stato detto dalla radiologa. Queste due parole mi sono arrivate come una pugnalata alle spalle e io sono sprofondata in un tunnel buio.

Ho iniziato così il mio percorso da malata di cancro con visite dopo visite, controlli di routine, esami più o meno invasivi e la tanto temuta chemioterapia che mi accompagnerà fino all’operazione di mastectomia. In questi mesi ci sono stati alti e bassi. Giorni in cui mi sembrava che tutto fosse finito e che niente avesse più senso. Ci sono però anche stati altri momenti di una gioia intensa e profonda. Attimi di totale presenza e serenità. Mi reputo una nomade per eccellenza, un’avida viaggiatrice sempre affamata di posti lontani o vicini da scoprire. Questa volta è diverso però. Il viaggio sarà all’interno. Qui. Ora. In ogni momento. È così che ho deciso di intraprendere questo percorso vivendolo nel modo più sereno possibile. It è qui. Ora. Con me. E sto cercando di conoscerlo, di capire chi sia veramente e perchè sia venuto a trovarmi.

Questo spazio su internet vuole essere una condivisione con gli altri delle mie scoperte in questo nuovo viaggio. Sono già passati più di sei mesi da quel giorno di diagnosi e di strada ne ho fatta. Dentro di me. Adesso, come ho fatto io all’inizio, ricevo telefonate da altre donne che come me hanno avuto una diagnosi di cancro e che mi fanno domande sulla mia esperienza della malattia e su come la vivo. Questo blog nasce con loro e per loro, ma anche per me per riuscire ad osservare sempre più con occhio scientifico ciò che mi sta accadendo.

“Non ci sono vie per la felicità, la felicità è la via” (Buddha)

 

Lunedi 23 luglio 2012 - Shopping con it

Anch’io mi sono fatta tentare. Ho approfittato della visita di un’amica arrivata dal freddo nord Europa per andare a fare shopping. Lei voleva comprarsi un vestito leggero per riuscire a sopportare meglio le temperature elevate delle nostre estati. Mi sono offerta di accompagnarla. Siamo partite per il centro cittadino armate di sandali comodi e di tanta pazienza, pronte a rovistare tra montagne più o meno interessanti di tessuto e a passare ore nei camerini a provarsi scarpe, vestiti, pantaloni, magliette... Alla fine io ho comprato il doppio di lei: due gonne per me, mentre lei un delizioso vestito color lillà.

“Two skirts?!... Due gonne?!” esclama stupito via Skype un mio caro amico di Londra che mi conosce bene. Ebbene sì. Sono gonne. E sono due. Io fervida paladina del pantalone e dell’abbigliamento comodo per eccellenza, ho improvvisamente sentito che il mio guardaroba necessitava di un tocco femminile in più e così mi sono lasciata sedurre senza esitazione dal bel fascino civettuolo di due graziose minigonne.

Sento che la mia femminilità è seriamente minacciata da It che se la vuole portare via. Io non ci sto. C’è qualcosa dentro di me che si ribella all’idea di un corpo mutilato proprio nella sua parte più femminile, il seno, e così in questo caldo torrido di mezza estate indosso abitini dai colori sgargianti e arricchisco il mio guardaroba con gonne che esaltano il mio essere donna.

 

Mercoledi 25 luglio - A tavola con it

Mattina presto di un giorno settimanale qualsiasi.

In attesa di farmi delle analisi, mi sono seduta ad un tavolino nella caffetteria dell’ospedale e subito mi colpisce la gigantografia seducente posta davanti a me di una maxi panino palesemente ritoccato in Photoshop. Strati di goduria racchiuse tra due fette di pane bianco. Lo guardo più attentamente e vedo che è decisamente un no per me così farcito di cibi a me proibiti. A cominciare dal pane bianco che non posso mangiare perché aumenta la glicemia. Quella rosea fettina di prosciutto cotto è un altro no perchè ricca di sale e di conservanti come del resto tutti gli insaccati. Eppoi contiene proteine animali che mi è stato consigliato di non ingerire almeno nel periodo della chemio. La mozzarella. È un no in quanto latticino e in più con proteine animali. Il pomodoro è un ni perché acido e tossico secondo i dettami della macrobiotica che io sto seguendo anche se con qualche infrazione occasionale. Non mi rimangono altro che quelle verdeggianti foglie di insalata. Che dire? Meglio cambiare locale. Ma dove vado? Meno male che mi ero portata dietro qualche galletta di riso integrale biologico che ho accompagnato con un caffè lungo, ovviamente d’orzo.

Come si suol dire, l’appetito vien mangiando e allora... Bon appetit!

 

Domenica 12 agosto 2012 - Come nelle fiabe

“Allora sei pronta per l’ultimo picnic?” mi chiede mio padre mentre sta mettendo la prima marcia per partire. All’ospedale ormai le infermiere mi prendono in giro per tutti quegli spuntini biologici e salutari che mi porto da casa: muesli (naturalmente senza zucchero) con frutti di bosco freschi e latte di riso, caffè d’orzo o tè verde bancha, alcune volte porridge di avena con mandorle tostate, frutta, di solito mele. Come un vero picnic, trasportato in una borsa rettangolare di stoffa azzurra comprata in Canada qualche anno fa, mi apparecchio dopo il prelievo nella hall del day hospital sotto gli occhi inquisitivi della gente che come me attende il proprio turno.

“Palagi... Terni... Tiberio...” Mi sembra di essere tornata agli anni del liceo, quando i professori chiamavano per cognome gli allievi che avevano deciso di interrogare quella mattina. Mi sono alzata subito, di scatto, appena ho sentito il mio nome, ma senza quell’ansia per l’interrogazione che spesso mi accompagnava quando andavo a scuola. Non ho niente di cui temere, mi sento preparata a fare quell’ennesimo esame che ormai da mesi è diventata la mia routine prima mensile e poi settimanale. “Respira profondamente” mi dice Susy, la prosperosa infermiera pugliese che cerca disperatamente di prelevarmi un po’ di sangue che si ostina a non uscire. Sembra che il mio corpo ne abbia avuto abbastanza di tutti quei prelievi e che si sia prosciugato della sua linfa vitale. La povera Susy si dispera perchè deve utilizzare una siringa invece dei soliti flaconcini per i prelievi. La inserisce nel piccolo catetere che si trova nella parte alta del mio braccio destro, ormai divenuto parte integrante del mio corpo dalla fine di gennaio quando ho iniziato la chemioterapia. Ho imparato ad amarlo quel tubicino di 38 cm circa che viaggia dentro di me per andare ad incontrare una certa vena Basile di cui non avevo mai sentito parlare fino a quel momento. La sua funzione è nobile: salvaguardare le mie vene. È in parte nascosto e in parte visibile all’esterno, ma protetto da una garza elasticizzata, che in estate attira l’attenzione della gente. Spesso pensano ad una frattura o ad una semplice bruciatura, ma ad una domanda diretta la risposta è altrettanto diretta: chemioterapia. Leggo lo smarrimento immediato nei loro volti. Talvolta si tratta di terrore che trapela dai loro occhi sgranati. Chemioterapia. Cancro. Una parola che ci ricongiunge con la nostra umana mortalità.

 

Martedi 7 agosto - Data storica. Da ricordare

Mi sento come un’eroina delle fiabe che ha appena superato il primo ostacolo, la prima prova che la condurrà alla liberazione. Osservo con distacco la familiarità di quei luoghi, di quei volti che mi hanno accompagnato in tutti questi mesi. Un nuovo mondo in cui sono precipitata qualche mese fa come in un baratro. Non avrei mai creduto di esserci arrivata così in fretta alla fine della chemioterapia. Ricordo ancora il mio disorientamento iniziale delle prime volte e adesso mi muovo tra quelle stanze come se fossi a casa mia. Mi dirigo nella stanza azzurra dove c’è un letto che mi aspetta per quell’ultimo giorno. Saluto i miei compagni di stanza di quella mattina. Fa già caldo fuori, il sole è alto e la luce dorata che si vede dal balcone di cemento grigio è in contrasto con il freddo dell’aria condizionata nella stanza. Chiedo una coperta. Ancora una mezz’ora prima che l’antistaminico faccia effetto e che sprofondi in un sonno profondo, letargico, un sonno che non lascia spazio per sognare.

 

Mercoledi 29 agosto 2012 - Il corpo che cambia

Lacrime salate scendono silenziose. Incontrollate solcano il mio viso pallido fino a raggiungere gli angoli delle labbra. Nessuna tristezza solo una semplice naturale reazione automatica provocata dalle cipolle rosse che ho appena tagliato per preparare un minestrone di verdura.

Corro in bagno per prendere un pezzo di carta igienica che mi asciughi queste lacrime indesiderate. Tampono gentilmente gli occhi ben delineati dal kajal per evitare che il trucco si sciupi. Voglio uscire stasera e non ho intenzione di rifare il make up. Mi stupisco. Nessun segno. La dettagliata silhouette grafica dei miei occhi neri stampata sul fazzoletto bianco non esiste più. Quel disegno che ricordava tanto gli occhi stilizzati di un cartone animato e che mi faceva ogni volta sorridere. Questi miei poveri occhi non hanno più né ciglia né sopracciglia e io guardo con sgomento misto a curiosità questo fazzoletto bianco che non riesce più a divertirmi.

Cerco di osservare a distanza senza emozioni, ma con attenzione questo corpo che cambia e che non riconosco più. In piedi davanti allo specchio del bagno immagino un corpo mutilato. È ormai un esercizio di routine, quasi a volermi preparare per quel giorno che ormai non è più così lontano.

In una società come la nostra in cui l’apparire ha più importanza dell’essere, il corpo assume un posto di primo piano soprattutto da un punto di vista estetico e la giovinezza viene mitizzata. Il peso corporeo è ormai un’ossessione. Basti guardare al boom delle palestre, dei centri benessere e all’aumento di malattie generate da disturbi alimentari quali l’anoressia o la bulimia, che colpiscono soprattutto le giovanissime. Siamo invasi da una cultura mediatica in cui il corpo viene mercificato soprattutto quello femminile e ormai aspirare a diventare velina è tristemente divenuto il sogno nascosto di molte bambine e adolescenti, le quali ancor prima di raggiungere l’età della pubertà già posano sensualmente al minimo accenno di uno scatto fotografico. La vecchiaia fa paura non solo per le malattie e l’avvicinarsi della morte, ma anche per il processo di decadimento a cui viene sottoposto il corpo. Tale paura sta facendo prosperare l’industria della chirurgia estetica a cui ricorrono sempre più persone che non appartengono necessariamente al mondo dello spettacolo.

In questo squallido contesto di superficialità esasperata dove si inserisce un corpo malato? Un corpo che dovrà essere mutilato per guarire?

 

Mercoledi 19 settembre 2012 - Cellula 3 / Letto 36

Ecco fatto. It se n’è andato.

L’hanno portato via giovedì, di prima mattina, tra le otto e le dieci. Il calendario segnava il 13 settembre 2012. Dopo nove mesi di attesa esatti, proprio come una gestazione, It è uscito da me.

Sono arrivata all’ospedale poco dopo le sette del mattino. Mi stavano aspettando. Tutto era pronto. Le infermiere mi hanno fatto preparare in fretta quasi come se dovessi perdere l’autobus. Il barelliere di turno indossava una maglia arancione sgargiante e aveva un’aria esotica. Il percorso in barella dal letto assegnatomi, che si trovava al terzo piano dell’edificio, alla sala operatoria, che era al primo piano, è stato breve attraverso lunghi corridoi e volti curiosi che si affacciavano dall’alto a guardarmi. Non ho avuto il tempo nemmeno di preoccuparmi, ero troppo impegnata a parlare con il mio barelliere e a scoprire il suo paese di origine: il Marocco.

Un comunissimo orologio da parete, che ricordava quelli che si trovano in cucina, era appeso davanti a me e segnava le otto e cinque quando sono stata distesa sul letto della sala operatoria. Un letto di pelle nera stretto e lungo, esattamente della misura del mio corpo, era posto in mezzo ad un’ampia sala dalle pareti beige dipinte con un effetto encausto. Forse si trattava di una semplice carta da parati, non saprei dire, ma aveva un’atmosfera accogliente e non fredda come mi aspettavo. Comodo ed imbottito quel letto ha accolto con calore il mio corpo, che si stava raffreddando nella saletta che precedeva quella operatoria. Mi ci hanno adagiato due donne, infermiere, con prudenza e io mi sono lasciata andare serenamente. Sapevo che era giunto il momento ed io ero pronta. Mentre loro coordinavano il lavoro da fare, l’anestesista parlava di morfina e il chirurgo si preparava, io ero intenta ad ascoltare la radio, distesa, con lo sguardo rivolto verso quel disco volante che mi sovrastava la testa.

Era la mia prima volta in una sala operatoria. Una vera rivelazione. Nessuno me lo aveva mai detto prima che si operava a ritmo di musica! In quel momento stavano passando una canzone conosciuta ed è proprio mentre cercavo di ricordarmi il nome, quando l’anestesista mi ha gentilmente appoggiato una mascherina sul viso e mi ha detto di fare tre respiri profondi. Non ricordo altro. Sono immediatamente sprofondata in un sonno pesante fatto anche di sogni di cui non conservo il ricordo. Erano sogni piacevoli ed io stavo bene dove ero e mi ha un po’ irritato quando sono stata risvegliata bruscamente dalle infermiere che urlavano il mio nome.

Un altro barelliere di cui ricordo solo vagamente il viso, ha fatto il percorso al contrario. Alle dieci e mezzo mi sono ritrovata nella camera assegnatami che condividevo con altre quattro donne.

Cellula 3 e letto 36 erano le mie coordinate per chi desiderava venirmi a trovare.

 

Domenica 23 settembre 2012 - L’inconfutabile legge del profitto

Quel numero parlava chiaro. Un numero di telefono di interno con un prefisso milanese. Un numero che era apparso sullo schermo del mio cellulare già altre volte, ma che non avevo mai avuto l’accortezza di registrare. Ho così risposto senza pensare troppo e con una certa curiosità.

Era lei.

Ho riconosciuto subito la sua voce con quel distinto accento del nord e per un attimo mi sono sentita persa. Quale atteggiamento tenere: di difesa o di attacco? Prima ancora che prendessi una decisione la conversazione era già andata avanti e così mi sono lasciata andare senza pensare troppo.

La dottoressa mi chiedeva il motivo della mia rinuncia: - Perchè non è più venuta a farsi operare qui a Milano?

Con un’inaspettata calma di cui mi sono sorpresa io stessa, le ho spiegato che dopo mesi di ricerca per riuscire a trovare un chirurgo “giusto” per il mio caso e soprattutto per la mia persona, mi sono sentita messa in disparte semplicemente perchè non pagante.

In una telefonata ricevuta tredici giorni prima la coordinatrice per le ospedalizzazioni continuava a ripetermi per telefono che io ero convenzionata, quasi come se fosse una colpa. Al principio non avevo capito bene. Non volevo capire. Non potevo capire visto che erano già trascorsi esattamente trenta giorni dalla fine della chemioterapia, periodo di attesa necessario per ristabilire le difese immunitarie nel mio corpo, ed io avrei dovuto essere operata a breve altrimenti il tumore sarebbe cresciuto. Mi si è chiuso lo stomaco e mi sono sentita come se fossi caduta improvvisamente in un precipizio con intorno niente a cui aggrapparmi. Un oceano di incertezze e paure mi ha sommerso proprio in quel momento quando tutto sembrava stabilito. Non potevo credere che un centro prestigioso come quello, in cui io avevo riposto tutte le mie speranze, mi avesse fatto questo!

Dopo un mese esatto di scambio di comunicazioni per telefono e posta elettronica tra varie persone del centro, avevano aspettato proprio il trentesimo giorno per dirmi che la dottoressa, primario del reparto di senologia, che io avevo accuratamente scelto non avrebbe potuto operarmi in quanto aveva altri interventi e che mi sarei dovuta affidare al chirurgo di turno del quale non erano neppure in grado di dirmi il nome. L’intervento era stato fissato per il martedì mattina con il prericovero di lunedì per le dovute analisi preoperatorie. Me lo hanno comunicato di venerdì, all’ora di pranzo. Prendere o lasciare. Decisamente non molto tempo a disposizione per pensare. In un primo momento ho accettato perchè non avevo alternative. Ero uscita da qualsiasi lista di attesa negli ospedali della mia città avendo deciso per Milano.

Che la nostra società si reggesse sul profitto, lo avevo capito già da tempo. Sembra pertanto scontato assistere anche alla commercializzazione della sanità, ovvero alla malattia come business. Quando però gli affari vengono fatti sulla tua pelle, rimane veramente difficile riuscire ad accettare certe logiche di mercato e il senso d’ingiustizia e d’impotenza che si prova è profondo.

Alla fine della conversazione telefonica la dottoressa in questione quando è stata confrontata direttamente ha ovviamente negato l’evidenza e ha recuperato la propria immagine dicendo che lei ha a cuore la salute di tutti i suoi pazienti. Non le ho creduto. Le sue parole erano in contrasto non solo con i fatti appena accaduti, ma anche con quella prima visita fatta alcuni mesi prima, che mi era costata trecento euro per mezz’ora di consulenza. Ormai però per me era un evento passato.

Per fortuna dopo giorni di incertezza e di panico estesi anche a tutti i miei familiari, sono riuscita a trovare un chirurgo presso l’ospedale dove avevo fatto la chemioterapia, che esercita la propria professione con coscienza e seguendo certi valori etici che dovrebbero appartenere a tutta la categoria. E’ riuscito ad organizzare in pochissimo tempo il mio intervento nella sala operatoria di emergenza dell’ospedale e a farmi fare tutti gli analisi necessari prima dell’operazione. Quando sono entrata in quella sala operatoria non c’era più né spazio né tempo per la paura, ma solo un’immensa gratitudine.