Un percorso di rinascita

"Quel velo nero che per tanto ho temuto, ora lo uso per cingermi la vita e con lui danzare a perenne ricordo di quanto la vita ci possa sorprendere nel suo quotidiano travaglio, regalando una luce inaspettata che illumina il nostro faticoso procedere..." di Annamaria Buroni

Se dovessi definire il trascorso della mia vita, dovrei usare parole a tinte forti, di quelle che colpiscono con forza, l’animo, poiché di vicissitudini ne ho passate molte.

Tutto è iniziato quando a nemmeno quattro anni la vita mi ha tolto mia madre, con la conseguente distruzione della mia famiglia.

Mio padre, che non aveva nessuna voglia di essere tale, per tanti, troppi figli, e per me in particolare, la più piccola e quindi la più impegnativa, trovò la soluzione: allontanarmi da casa per lunghi anni, affidata a una famiglia di conoscenti, in un’altra città, alla quale sono stata consegnata da mio padre in pratica come, un pacco postale, firma al ricevimento, sorriso, carezza sulla testa e fuga nel nulla.

A tredici anni, grazie a mio fratello maggiore, ritrovai la mia famiglia e frequentandoli, oltre alla gioia del ritrovarsi, scoprii purtroppo anche cose spiacevoli come la predisposizione in famiglia a malattie oncologiche.

Mio padre è deceduto per un tumore alla prostata, mia sorella Claudia ha lottato per anni con una grave leucemia, l’altra mia sorella Loretta ha avuto un tumore al seno con recidiva all’utero, mio fratello Riccardo un tumore alla prostata, purtroppo con metastasi alle ossa, che l’ha portato alla morte cinque anni fa, molto giovane.

Per questo fin da giovanissima ho tenuto sotto controllo la mia salute, affidandomi a vari controlli di prevenzione.

A trentaquattro anni ho conosciuto mio marito, Stefano, e abbiamo subito deciso di avere un figlio e così a trentasette anni ho avuto il mio Luca, un parto sereno, naturale, perfetto per non essere più una ragazzina!

Poiché nella vita, tirare un sospiro di pace, è un lusso che dura poco... nel novembre del 2002 mi riscontrarono un carcinoma alla cervice uterina, veramente aggressivo.

La prevenzione periodica che ripetevo ogni otto mesi, soprattutto attraverso il pap-test, mi ha salvato da un ritardo nello scoprire la malattia che avrebbe potuto essermi fatale.

Certo non è stato facile gestire emotivamente la notizia, non tanto per me, ma per la mia famiglia: Luca aveva solo otto anni, in casa con me vivevano mio padre adottivo, cardiopatico, e mio suocero molto anziano, oltre ad avere da quasi tre anni mia suocera completamente paralizzata da un gravissimo ictus.

Una situazione pesante che non sapevo bene come affrontare, consapevole che il viaggio che mi attendeva sarebbe stato difficile, sia per la lunga degenza in ospedale che per gli esiti, allora incerti, delle cure.

Il mio protocollo prevedeva due lunghi ricoveri per chemio e radioterapia associata, in modo da portarmi alla data dell’intervento, prevista per il marzo del 2003, con il tumore notevolmente ridotto e quindi con possibilità di un esito favorevole, sicuramente maggiore.

Devo dire che tutte le traversie passate fin dall’infanzia, tante volte maledette, mi sono servite per forgiarmi un carattere forte e positivo. Distogliendo per un po’ il pensiero dalla malattia, essendo la data del ricovero vicina al Natale, pensai immediatamente a Luca, a come non fargli pesare la mia assenza, e mi precipitai a preparare come ogni anno l’atmosfera natalizia cui l’avevo sempre abituato, ben consapevole che dopo, iniziando le terapie, non mi sarebbe stato possibile trovare le forze per fare tante cose.

Infatti, tutto quello che di peggio poteva accadermi come effetti collaterali, mi è capitato, tanto che invece di dimettermi dopo otto giorni dal primo ciclo di chemio/radio, mi dimisero dopo venti giorni, il 24 dicembre, proprio alla vigilia di Natale!

Questo è stato uno dei momenti più dolorosi, aspettavo con grande nostalgia il ritorno a casa per riabbracciare mio marito e mio figlio, che non avevo più visto, ma quando arrivai a casa Luca vedendomi rimase impietrito perché... non mi riconosceva, i tratti del suo visetto erano irrigiditi, deluso e incredulo, disse che “non ero la sua mamma”.

In quel momento mi resi conto di quanto le terapie mi avessero cambiato, riuscii a stento a trattenere le lacrime, cercai di trovare tutte le forze che mi erano rimaste per scherzare e ironizzare sul mio aspetto, riuscendo piano piano a calmarlo e finalmente, riabbracciarlo.

Da quel momento anche Luca ha seguito il mio percorso con serenità e normalità e, ogni mio brutto momento di ricaduta, era accettato da Luca, al quale ho sempre voluto spiegare la realtà della situazione senza bugie, cercando ovviamente di non spaventarlo, consapevole di non avere di fronte un adulto, ma sapevo che il mio Luca avrebbe capito, tuttora è un meraviglioso ragazzo, sensibilissimo, ma forte.

Fortunatamente gli esiti sono stati fin troppo favorevoli con me, ho risposto benissimo alle terapie, sono arrivata all’intervento con una notevole riduzione del tumore, e non ho più avuto bisogno di continuare nessun altro tipo di terapie chemioterapiche.

Di questo periodo ho depennato il ricordo del dolore fisico, e dei momenti in cui ho ceduto, piangendo “sotto le lenzuola” credendo di non farcela.

Quello che invece ho scolpito nel profondo dell’animo è il ricordo dei miei compagni di viaggio che non ce l’hanno fatta, il loro dolore fisico e morale, e la serenità di alcuni, che se ne sono andati con una dignità commovente, persone con una forza e una umanità meravigliose!

Quanta rabbia ho provato in quei lunghi ricoveri, vedendo come questo male portava alla morte persone di ogni età, alcuni poco più che ragazzi. Leggere la disperazione più profonda negli occhi vuoti senza più lacrime dei loro genitori... è una sensazione che ancora mi porta sgomento e quegli sguardi non li potrò mai dimenticare!

Ricordo in particolare una notte terribile in reparto, nella stanza accanto a me era ricoverata una ragazza di ventisei anni, con un tumore terminale alle ossa, le sue urla di dolore e di rabbia ancora le sento lacerare il mio stomaco e anch’io, cosi tanto determinata e forte...cedetti al pianto e al desiderio di riabbracciare mio marito e mio figlio.

Il mattino seguente ero stranamente molto calma e con un bisogno impellente di scrivere dei versi, che avessero una funzione catartica sull’enorme vuoto che provavo in quel momento, è nata così.

 

“Schegge”

Un plumbeo cielo mi fa oggi da cappello,

cerco rifugio rientro il mio cappotto.

Fa freddo, mi fa sempre freddo.

I miei occhi congelati e stanchi

camminano accanto al mio passo di piombo

ed insieme annegano nelle cento pozze

che affaticano il mio incedere.

Fa freddo, mi fa sempre freddo.

Il mio sguardo inciampa in qualcosa d’indefinito.

mille schegge di un volto schizzano sotto il mio passo di piombo,

arresto il cammino

ed esse, placate, rivelano in un tremulo puzzle

un volto che non riconosco

non è mio quello sguardo di marmo

che incatena il mio corpo

voglio muovermi, non ci riesco,

posso solo fissare quella tremula immagine

dove mute labbra urlano e sorde orecchie ascoltano.

Sono sola e ho freddo, sono sempre sola e ho sempre più freddo.

Impietosa pozzanghera,

fangoso specchio della mia vita,

se la mia mano si facesse sasso

e riportasse in schegge quel vuoto sguardo

se il mio cuore si facesse fuoco

per riscaldare ancora una volta,

una sola volta

quel viso esangue!

D’un tratto, da sepolti ricordi

il calore evocato discioglie quel gelido sguardo,

ne nasce uno lacrima,

cade

e tutto sconvolge.

Proprio questo volevo che tutto si sconvolgesse, questa sofferenza doveva pur fare scaturire qualcosa di buono ed è così che nel mio animo più profondo, ha preso vita un’unica convinzione, e cioè che la vita deve essere vissuta, il più possibile perché la morte deve trovarmi “viva”!

E allora, passato tutto questo ciclone, giacché in quest’occasione, la vita con me è stata così generosa da offrirmi una seconda possibilità, mi sono detta: perché rimandare ancora le mie passioni di sempre scrivere, recitare, danzare!

La danza, l’ho sempre amata, ammirata, sognata in ogni sua disciplina, anche se non ho mai frequentato alcun corso. Prima di ammalarmi avevo deciso di iniziare un corso di Danza Orientale, ne ero molto attratta.

Ritrovare la forza, sia fisica sia mentale, di provarci egualmente dopo la malattia, non è stato facile, ma alla fine mi sono detta... perchè no!

In fondo non mi sono mai ritenuta “diversa” dopo la malattia, e sentivo che avrei potuto ancora trasmettere qualcosa, e così con la caparbietà che mi contraddistingue, ho iniziato a prendere lezioni.

La danza mi ha davvero permesso di comunicare e ricevere molto, quando ballo non penso e non vedo nulla, mi perdo completamente nell’emozione della musica, dimenticando dolori ed età!

Un caro amico di mio marito, vedendomi danzare, mi ha dedicato un suo bellissimo testo teatrale che unisce le mie due passioni, danza e recitazione, e così, grazie al caro Filippo, ho anche realizzato il sogno di interpretare questa fusione, recitando e ballando in un bellissimo spettacolo andato in scena a teatro.

Molte sono state le esperienze artistiche che ho voluto tentare per sentirmi “viva” ma quella che più mi rappresenta è l’esperienza con Paola Camiciottoli, cara amica da anni, il suo affetto mi ha accompagnato in tutto il lungo percorso della malattia.

Paola è una bravissima fotografa, l’ho sempre ammirata perla sua grande creatività ed estrosità. Per questo quando un giorno mi chiese di posare per lei, ho accettato con gioia la sua proposta. Da subito ci siamo rese conto che qualcosa di molto profondo stava nascendo da quegli scatti. Paola ha capito subito il mio animo più intimo, la mia voglia di vita e di comunicare la mia rinascita. Tutto questo è rappresentato, perfettamente nel suo lavoro fotografico, nato con tanta gioia in due pomeriggi di scatti e di silenzi, che hanno generato “Il Giardino di Anna” una mostra fotografica che narra la scoperta, la lotta, il dolore, l’accettazione e la rinascita dalla malattia oncologica.

Foto dure, difficili ma reali e permeate della mia vera essenza, una donna che ama andare controtendenza all’unica visione di donna giovane, bella, glamour, fin troppo proposta e mercificata. Dimostrare invece quanto si possa essere ancora belle e desiderabili anche attraverso mutilazioni, cicatrici, o il naturale trascorrere degli anni.

In questo “giardino” ho mosso i primi passi verso la rinascita e in questo giardino, che non è solo di Anna, invito tutti quelli che come me hanno temuto di vederlo sfiorire per sempre.

Quel velo nero che per tanto ho temuto, ora lo uso per cingermi la vita e con lui danzare a perenne ricordo di quanto la vita ci possa sorprendere nel suo quotidiano travaglio, regalando una luce inaspettata che illumina il nostro faticoso procedere.