Eravamo in primavera

"Entrai a letto, e nel buio i miei occhi restarono spalancati per molto, ma non riuscivo a pensare. Vedevo solo davanti a me i miei due bimbi (13 e 15 anni) ed avevo solo 41 anni. Mi addormentai..." di Fiorella Ragionieri

 

Eravamo in primavera. Virgilio, mio marito, stava già dormendo ed io mi stavo spogliando per andare a letto e come alcune volte ero solita fare, feci l’autopalpazione ai seni. Nel lato esterno del seno destro, (i miei seni sono piccoli), mi sembrò di sentire un piccolo indurimento non dolorante. Palpai più volte quel punto, mentre il fiato si faceva svelto ma non riuscivo pensare. Svegliai mio marito e gli chiesi di palpare il seno perché mi pareva di sentire un nodulo. Si alzò nel letto un po’ assonnato, e dopo aver scorso la mano sul seno, mi disse che non sentiva niente e, forse per rassicurami, mi disse di stare tranquilla.

Entrai a letto, e nel buio i miei occhi restarono spalancati per molto, ma non riuscivo a pensare. Vedevo solo davanti a me i miei due bimbi (13 e 15 anni) ed avevo solo 41 anni. Mi addormentai.

La mattina come al solito andai a lavorare. Ero impiegata alla ASL di Empoli dal 1969 ed essendo vacante il posto di direttore del settore acquisti, svolgevo la funzione di responsabile del suddetto settore.

La mattina trascorse tra il lavoro e le telefonate, ma già dal primo pomeriggio sentivo in me un malessere che mi toglieva la tranquillità. Mi vestii e mi recai dal mio medico curante.

Quando fu il mio turno entrai e riferii al medico di aver sentito un piccolo indurimento al seno o così mi sembrava! Dopo avermi visitato mi confermò che il nodulo c’era e mi disse: ”si faccia vedere in un centro specializzato, il prima possibile” senza darmi altre indicazioni, né consigliarmi a chi rivolgermi e mentre uscivo, ancora mi disse “sfrutti la sua posizione” e la porta dell’ambulatorio mi si chiuse alle spalle!

“Sfrutti la sua posizione!” quelle parole mi colpirono come una freccia al cuore e compresi in un attimo tutta la gravità della situazione, mentre le lacrime mi solcavano abbondanti le guance senza singhiozzi.

Uscii e sentii freddo. Dovevo dirlo a Virgilio. Come dirglielo? In quel momento mi mancava tantissimo mia madre che era morta appena a 69 anni, un anno e mezzo prima, lasciando in me un vuoto enorme. Camminavo per la strada piena di gente ma mi sembrava di essere un fantasma che guardava dall’alto la strada e mi dicevo “ cosa faccio io qui”?

Camminavo senza meta e piangevo; non so per quanto tempo, ma si era fatto tardi e dovevo farmi forza e tornare a casa. Era quasi l’ora di cena e Sandro e Stefano – i miei figli – mi stavano aspettando.

Appena entrata in casa, Virgilio mi lanciò uno sguardo e vidi che si turbò ma non disse nulla. Solo dopo cena quando ormai i bimbi dormivano gli spiegai la situazione e cercò di attutirmi il colpo con parole buone e dicendo che forse non era niente di grave.

La mattina di nuovo ero al lavoro; mi ero procurata il numero telefonico del CPSO di via Volta a Firenze.

Presi il telefono e feci il numero. Tremavo per paura di cosa potevano dirmi e facevo violenza a me stessa per quella telefona in cui stavo sfruttando la mia posizione. Ero molto riservata sul lavoro e non concepivo quanto stavo facendo. Ma questa volta chiusi gli occhi e andai avanti.

- “Pronto, qui è la U.S.L. di Empoli, sono la responsabile del settore acquisti e vorrei parlare con il responsabile medico della Vs/ struttura”. - Un attimo dopo mi passarono il responsabile. (Dr. M.)

Di nuovo mi presentai e spiegai la situazione; la voce mi tremava ma riuscii a non piangere anche se il nodo alla gola mi rendeva difficile il respiro.

Il medico che mi stava ascoltando capì la situazione, mi chiese quanti anni avevo e mi invitò a presentarmi al Centro la mattina del giorno successivo alle 9.

Era il 18 o 20 maggio – non ricordo con esattezza. Lo ringraziai di cuore e mi sentii fortunata.

Il giorno dopo con mio marito mi presentai al Centro e dopo poca attesa mi trovai davanti il responsabile medico con cui avevo parlato per telefono, che molto gentilmente mi visitò e mi disse che mi avrebbe fatto un esame (ago aspirato) per vedere se il nodulo era pieno di liquido o solido. Era una persona dolcissima e molto avvolgente. Mi sdraiai su un lettino e dopo avermi spiegato cosa avrebbe fatto - mio marito era in un angola della stanza- inserì un lungo ago nel seno. Non so se sentii dolore ma ricordo benissimo che dagli occhi cominciarono a scendere lacrime a fiumi, e mi sentivo sola e disperata.

Mi disse di ritornare il 25 maggio a prendere il risultato e se ci fosse stato bisogno di un intervento chirurgico avrei potuto andare dove desideravo, anche ad Empoli visto che ci lavoravo. Comunque quando fossi tornata per la risposta, se avessi deciso di operarmi a Firenze mi avrebbe presentato al chirurgo che per lui era molto bravo e che “al di là del suo aspetto un po’ tedesco era dentro molto umano”.

Il 25.5 cercavo la collana che mi aveva regalato mia madre perché volevo metterla per andare a Firenze; ma non la trovai e lo presi come un segno negativo.

Il medico mi comunicò che era un tumore al seno destro e che dovevo operami. Mi presentò il dott. C. e fui messa in lista per essere operata verso il 10 giugno.

La solitudine non mi abbandonava. Avevo comunicato di avere un tumore solo a mia sorella e a mia suocera, mentre le colleghe al lavoro non sapevano ancora niente. Mio marito informò i figli. Sempre di più mi sentivo un fantasma tra la gente e continuavo a ripetere “che cosa ci faccio qui?” Mai però ho detto “perché è capitato a me e non ad una altro?”

Unica grande consolazione era che mia madre era morta e non avrebbe saputo che avevo un tumore. Quanto avrebbe sofferto!

Sapevo benissimo che avrei potuto avere poco tempo da vivere, ma ce la volevo mettere tutta la mia grinta e chiesi, non so bene a chi, che mi fossero concessi 7 anni ancora, per far sì che i miei ragazzi divenissero autonomi. Feci testamento lasciando pochi ninnoli come ricordo a mia sorella e mia cognata. Scrissi poi una lettera a mio marito ed ai miei figli, una a mia sorella, una a mia cognata da aprire solo in caso della mia morte, e Dio solo sa le lacrime che versai mentre scrivevo libera quanto avevo in cuore da tanto tempo.

Tante volte dal momento in cui mi fu confermato il tumore mi trovavo a pensare e automaticamente piangevo senza ritegno. Un pianto silenzioso, solitario, senza singhiozzi. Lacrime che scendevano copiose dai miei occhi.

Quel giorno mi comprai una camicia di seta azzurra per l’operazione ed ero pronta.

La mattina del 4 giugno mi accompagnò mio marito all’ospedale ed in reparto, era molto serio e non parlava.

Il reparto era pieno di persone giovani e meno giovani che avevano il mio stesso problema, e capii che dal di fuori non si pensa alla sofferenza di molte persone e alle malattie che distruggono e deturpano senza guardare in faccia nessuno.

C. mi comunicò che non poteva sapere, se non al momento dell’intervento, se avrebbe fatto una quadrantectomia o tolta tutta la mammella. Entrai in sala operatoria non impaurita. Pochi giorni prima del ricovero mia sorella e mio cognato mi avevano portato a vedere un campo di grano pieno di papaveri e mi dissero: “quando ti addormenti in sala operatoria pensa a questa immagine”. Mentre mi presero di peso per mettermi sul tavolo operatorio pensai che potevo non risvegliarmi, mi venne paura e le lacrime cominciarono a scendere. Pensai allora ai papaveri e mi addormentai.

Al risveglio mio marito mi sorrise e mi disse che era andato tutto bene; avevano “tolto tutto” e ora dovevo solo stare tranquilla.

Mi sentii morire perché voleva dire che il tumore era già avanti. Piansi ma non mi feci vedere e pensai come presentarmi ancora a mio marito, ma forse ero fortunata perchè avendo il seno piccolo avevo la fortuna di nascondere la cosa meglio di altre donne.

Ma mio marito aveva capito male; mi avevano fatto solo una quadrantectomia e lo svuotamento dell’ascella.

Mi ritenni fortunata. I giorni passarono in reparto insieme alle altre donne operate come me, ci aiutavamo, e anche gli infermieri erano gentili.

Alla dimissione mio marito parlò con il medico e gli chiese “allora è tutto a posto?”. Il medico rispose “non mi faccia dire ciò che non ho detto”, occorrerà vedere i linfonodi e l’evoluzione.

Dovevo fare la radioterapia per 3 mesi; dovevo cercare un ospedale dove c’era posto perché meglio era iniziare il più presto possibile.

Tornata a casa avevo il braccio che non muovevo e dolorante. Con molta ginnastica arrivai con tempo e tanto dolore a riacquistare un po’ di mobilità.

Mio marito mi stava vicino; mi racconta che non sapeva come trattarmi, se da malata o darmi invece un po’ di spinta per non farmi pesare la pena che avevo. Optò per la seconda e l’indovinò.

Avevo addosso molta angoscia e avevo paura del dolore che avrebbe potuto venire fino a portarmi alla morte, ma dovevo andare avanti per i miei figli.

Intanto mi davo da fare per iniziare la radioterapia. Parlai con il radiologo di Empoli che mi consigliò l’ospedale di Livorno dove trovai disponibilità per iniziare il trattamento dal 1 luglio.

Tutti giorni partivo in treno da Empoli per Livorno e a piedi mi recavo all’ospedale. La prendevo come girata, era caldo, ma non mi lamentavo.

Era quando mi chiudevano nel bunker, che mi sentivo completamente isolata dal mondo e la solitudine ricompariva opprimente. Il braccio destro che dovevo tenere teso in obliquo al di sopra della testa per lasciare che le radiazioni colpissero la zona del seno, mi faceva molto male e solo con tanta forza riuscivo a terminare il tempo necessario senza muoverlo, mentre le lacrime giornalmente ricomparivano.

Dopo tre mesi, a fine settembre terminai il ciclo di radiazioni.

A ottobre rientrai a lavorare, e il primo giorno trovai la scrivania piena di fiori che le colleghe, rappresentanti e altri mi avevano inviato. Mi sentii compatita ma sentii anche tanto calore attorno a me, mi sentii amata ed il lavoro, devo dire che mi ha distratto molto e mi ha aiutato a superare pian piano il tumore.

I controlli prima trimestrali, poi semestrali, poi annuali andavano bene e pian piano speravo che forse sette anni me li avrebbero concessi.

Vivevo con una spada sulla testa ma guardavo avanti e la vita riprese il suo corso.

Sono stata fortunata, di anni ne sono passati diciassette.

Mio marito mi dice sempre che mi sono salvata da sola!

Forse! Ma oggi so osservare tutte le cose dall’alto, non esistono più sfumature, ma bianco o nero, buono o cattivo, si o no e soprattutto cerco di vivere senza mai pensare a cosa accadrà domani.

Dentro al mio cuore tengo un pensiero per i medici che hanno ascoltato e compreso.