Lo sapevo

"Che dire di quel senso di oppressione che avvertivo in quel periodo sovraccarico di angosce, di lavoro e di impegno? Visualizzavo una macchia scura, un peso sul petto: un segnale del mio corpo, sebbene avessi fatto altri controlli di routine (mammella, utero e intestino) a causa del tumore al seno di mia sorella e della morte prematura dei miei genitori per carcinoma..." di Loriana Bonfiglioli

 

 

Lo sapevo!

Dopo la morte di mia madre, ho creduto per molti anni che sarei morta anche io giovane, come se la nostra somiglianza fisica e di carattere mi condannasse fatalmente alla sua stessa sorte. Nei primi anni del 2000, poco più che cinquantenne, mi sono ritrovata separata, sola dopo tanti anni di convivenza, con la necessità di provvedere a me stessa e di capire ciò che desideravo essere e fare.

Forse, fin da allora, si è sviluppato il mio cancro: nessun sintomo della sua presenza né disturbo tanto che rifiorisco diventando il “ritratto della salute”, mentre mi impegno in lavori editoriali che mi avvalorano come persona e danno nuovo impulso e curiosità alla mia mente, colmando il senso di vuoto del presente.

Che dire di quel senso di oppressione che avvertivo in quel periodo sovraccarico di angosce, di lavoro e di impegno? Visualizzavo una macchia scura, un peso sul petto: un segnale del mio corpo, sebbene avessi fatto altri controlli di routine (mammella, utero e intestino) a causa del tumore al seno di mia sorella e della morte prematura dei miei genitori per carcinoma.

ETP ovarico bilaterale al IV stadio, questa è stata la diagnosi seguita al referto istologico: due cisti enormi si sono fatte spazio dalle ovaie nel mio ventre mentre le cellule maligne si infiltravano avvolgendo gli organi vicini. Ancora una volta il mio apparato riproduttivo mi aveva tradito diventando, addirittura, terreno di coltura per un cancro.

Non c’è stato tempo per riflettere o pensare a un testamento anche se mi rendevo conto che la mia situazione era prossima a un blocco intestinale, così critica che poi mi hanno dovuto operare d’urgenza.

All’ospedale “Torregalli” dove sono stata trasferita in ambulanza, sono stata accolta con qualche brontolio, data l’ora tarda, ma il personale infermieristico e quello medico mi hanno fatto sempre sentire una persona e non un numero, trattandomi con una professionalità addolcita dall’interesse umano.

Un “interventone” mi ha detto Lidia, la mia dott. di famiglia, quando è venuta a trovarmi in terapia intensiva. Sapevo già della deviazione dell’intestino, un’eventualità che mi riempiva di terrore facendomi pensare al drenaggio epatico e al sacchetto che la mamma aveva dopo il suo intervento di bypass del cancro all’ilo del fegato. Sapevo anche che la stomia sarebbe stata temporanea e non definitiva, ma la sola presenza mi inorridiva, pur senza percepirla.

Trovai tuttavia la forza di chiedere a Lidia: “ Se mi dici che ce la posso fare, io ce la faccio”.

Rientrata in reparto, con l’incubo di visioni allucinanti e la presenza di questa appendice sulla mia pancia ancora tonica, non potevo trattenere un senso e un moto di schifo al cambio del sacchetto del quale non mi interessavo come se fosse altro da me, mentre medici e infermieri si occupavano di me e dei miei progressi sollecitandomi tanto da avere una ripresa sorprendente.

Ho chiesto informazioni ma non esisteva un servizio psicologico come è previsto nelle pazienti con tumori al seno che affrontano una situazione di mutilazione, dolorosa ma confrontabile e che non mi pare così drammatica come convivere con una stomia.

Le infermiere del Centro stomizzati di Scandicci sono state rassicuranti e sempre attente ad aiutare dalla scelta del sacchetto più adatto alla crema protettiva, allo spray impermeabilizzante. Era mia sorella ad occuparsene finche un’amica mi ha fatto capire che senza la stomia non avrei potuto vivere e che, anzi, indicava la piena ripresa della funzionalità dell’intestino. Da allora, ho iniziato a provvedere di persona, memore di una privacy delle proprie funzioni corporali.

È stato comunque arduo perchè la stomia è incontrollabile: brontolii, rumori scoppiettanti e produzione continua di feci alla quale non riesci ad abituarti. Sono stata molto brava a nascondere questo handicap, ma mi sono ritrovata in situazioni di emergenza e di grande disagio, nonostante mi fossi preoccupata di ogni eventualità e girassi con tutto il necessario per il cambio del sacchetto. Ho affrontato anche la chemioterapia settimanale con grinta, con l’unico scopo di effettuare al più presto l’intervento di ricanalizzazione.

Alla fine dei 9 cicli di chemioterapia, mi sono ritrovata in attesa dei controlli spaurita e ansiosa e mi sono preoccupata del secondo intervento: non potevo certo tornare a scuola con la mia disastrosa e incontrollabile appendice che mi aveva stravolto la vita.

TAC e PET nella norma, eppure non sono riuscita a gioire: mi sentivo incredula e svuotata come se la notizia non mi riguardasse. Il mio corpo aveva retto bene, ma la mia psiche vacillava; ho chiesto aiuto a uno psicoterapeuta che ha ridotto le mie fratture: mi ascolta e mi spiega, sottolineando tutto ciò che è una reazione sana.

Non riuscivo più a tollerare la stomia ed ero sempre prossima alle lacrime; invece, sono stata molto fortunata rispetto ai tanti malati che devono cambiare terapia perchè quella precedente è inadeguata o sono talmente peggiorati da risultare trasfigurati e quasi irriconoscibili.

Niente è più come prima: un’altra chance da vivere con più leggerezza e, poi, il solito lasciarsi andare dimenticando i momenti più brutti, quelli del secondo intervento o dell’ interminabile attesa del responso negativo.

Mancano ancora alcuni mesi a gennaio 2011, al compimento dei 58 anni: mamma è morta quasi due mesi prima, quindi solo a dicembre sarò veramente salva.