Chiudo gli occhi

"Il cancro arriva subdolo, invade e domina tutti gli aspetti della tua vita. La prima volta, dopo aver malamente digerito il colpo, ho preferito la strada del silenzio e della negazione. La seconda volta, dopo solo un anno, lo spavento non c’è più, ma è ancora peggio, perché prendi coscienza che l’incubo non è finito, che ci devi convivere e che è solo l’inizio di un cammino oscuro..." di Maria Marzetti

Firenze, 12 marzo 2010

Chiudo gli occhi e la memoria riaccende un’immagine lontana, ma nitida. Fa molto caldo; due giovani, un uomo e una donna sono fermi con la macchina in panne e attendono pazientemente l’arrivo di qualche passante. Rari da quelle parti! Siamo in Eritrea, una ventina di Km da Massaua.

Un paese e un popolo che portano ancora evidenti i segni di una guerra da poco passata, ignari che il peggio deve ancora venire: è il 1995.

Paesaggi mozzafiato che scendono rapidamente dall’altipiano di Asmara fino alla costa e alle spiagge di Massaua, dove, alla mattina presto, si possono osservare ancora giochi di delfini che si inseguono fino a riva, disturbando placide razze nascoste sotto la sabbia bianca.

Intorno si respira l’aria di un colonialismo ormai lontano, ma non dimenticato.

Una terra fiera, una natura forte e austera, come lo sguardo delle donne che si incontrano lungo le strade polverose.

Questo lo scenario dove io e R. abbiamo incontrato per la prima volta I .e U. e, dopo quel giorno, le nostre vite si sono incontrate ancora, altrove, tante volte.

Un senso di condivisione che allora non potevo comprendere e che non era solo un comune amore per l’Africa.

Ricordo che allora J. non parlava una parola di italiano e visto che il mio inglese era pressoché nullo, abbiamo lasciato parlare i nostri uomini, oggi mariti, allora compagni e i nostri sguardi.

Gli anni sono trascorsi, scanditi dalla nascita dei nostri rispettivi figli e da piccoli e grandi cambiamenti, che più volte ci hanno allontanato e poi riunito.

Succede a volte che i legami si rafforzino, nonostante la distanza; è quello che è accaduto ai nostri bambini quando, alcuni anni fa, un trasferimento per motivi di lavoro, ha messo tra le nostre famiglie una considerevole distanza.

Ancora una volta le nostre strade si sono divise e ancora una volta è cresciuto il valore dei rari momenti in cui è stato possibile rivederci e stare tutti insieme.

Fino al giorno in cui una scure si è abbattuta sulla mia vita e su quella dei miei cari e ha sconvolto tutti i programmi e tutte le certezze che credevo di avere.

Il cancro arriva subdolo, invade e domina tutti gli aspetti della tua vita.

La prima volta, dopo aver malamente digerito il colpo, ho preferito la strada del silenzio e della negazione.

La seconda volta, dopo solo un anno, lo spavento non c’è più, ma è ancora peggio, perché prendi coscienza che l’incubo non è finito, che ci devi convivere e che è solo l’inizio di un cammino oscuro.

Ricordo soprattutto un profondo senso di annientamento ed un unico pensiero, che mi assillava: che ne sarà delle nostre bambine? chi le seguirà nel difficile cammino verso l’età adulta?

Quante difficoltà e sconfitte avevamo superato insieme io e R. (mio marito) prima di poter stringere tra le braccia la nostra piccola C. (prima figlia) e poi, insperata dopo quattro anni anche L., la nostra seconda figlia.

Diventare genitori a quarant’anni, cinquanta per mio marito, scatena sentimenti contrastanti: da un lato una consapevolezza e una gioia immensa, dall’altra hai paura che ti possa mancare l’energia per poter seguire adeguatamente i momenti fondamentali della crescita dei tuoi figli, hai paura di non poterci essere quando saranno grandi, ma avrebbero ancora bisogno della tua presenza.

Dopo il secondo intervento al seno, durante la convalescenza, in attesa di iniziare le terapie, camminavo per strada, inseguendo i peggiori pensieri, senza trovare una soluzione.

Alla fine ne parlai con mio marito, anche lui stava vivendo le stesse angosce.

Avevamo pensato la stessa cosa: solo due persone avrebbero potuto accettare di occuparsi delle nostre bimbe, se fosse stato necessario.

Ci siamo rincontrati e come in quel deserto di tanti anni prima, non sono state necessarie troppe parole.

Una grande emozione e insieme un senso di serenità; le nostre figlie saranno le loro figlie, se sarà necessario. La loro disponibilità incondizionata è stata come un faro nel buio, un dono che va ben oltre l’amicizia.

E si riapre la vita.

Un carissimo monaco benedettino, preziosa guida spirituale in questo mio faticoso cammino, ha scritto: “... un testamento d’amore… questo passaggio di vita nella vita”.

Con questa forza nuova ho affrontato un anno di terapie e ho imparato a vivere soprattutto nel presente.

Cerco di allontanare dalla mia vita la fretta e l’ansia del domani e di assaporare il valore delle piccole cose che accadono ogni giorno, cerco di parlare meno ed ascoltare di più e guardo al futuro con fiducia; comunque vadano le cose, le nostre bambine non saranno sole.

In fondo nessuno conosce il proprio destino e allora continuo a fare la mamma con un entusiasmo ritrovato, finché Dio lo vorrà.

Anche J. è cresciuta dai tempi dell’Eritrea. Oggi parla un perfetto italiano (e io ancora un pessimo inglese!).

Allora era una giovanissima maestra di inglese, volontaria in un minuscolo e sperduto villaggio africano, oggi è una moglie e una mamma attenta, una giovane donna con un cuore grande, leale e coraggiosa; ho imparato molto da lei.

Ci vediamo di rado, ci scriviamo spesso e condividiamo emozioni.

I nostri figli crescono, ignari del nostro “piccolo, grande segreto”, si scambiano telefonate e progettano vacanze insieme.

E quando le mie figlie mi chiedono degli angeli, ho imparato a rispondere che non sempre hanno le ali: a volte hanno il camice bianco, a volte camminano a piedi nudi nella polvere, a volte hanno gli occhi a mandorla, a volte sono accanto a noi in un letto di ospedale, a volte... fanno miao!... ma questa è un’altra storia.

A proposito! Quest’estate andremo tutti insieme in Grecia e la vita continua.