Un'amazzone dentro di me

"Sono le cinque e mezzo di un pomeriggio particolare, è piena estate, il sole è caldo e per la prima volta sono seduta in mezzo ad altre donne sconosciute, come me operate di tumore al seno, dentro un dragon boat che scivolerà sull’acqua dell’Arno spinto dalle loro pagaie. Sono le Florence Dragon Ladies, energia rosa sull’acqua…" di Lucia Canacci

 

Sono le cinque e mezzo di un pomeriggio particolare, è piena estate, il sole è caldo e per la prima volta sono seduta in mezzo ad altre donne sconosciute, come me operate di tumore al seno, dentro un dragon boat che scivolerà sull’acqua dell’Arno spinto dalle loro pagaie.

Sono le Florence Dragon Ladies, energia rosa sull’acqua… In mezzo a loro vedo la città sfilare lungo le rive del fiume, che prospettiva insolita!

Quando scendo dalla barca sento che la corrente dell’acqua ha portato con sé la corrente dei ricordi. Ritorno a casa e leggo casualmente sul sito della Lilt il bando di “le donne si raccontano”.

È arrivato il tempo di scrivere. Così anche la memoria prende a scorrere tra i miei pensieri...

 

Era forse il 1984 o giù di lì mentre camminavo lungo via della Pergola in una mattinata di inizio estate. Ero ancora una studentessa di Lettere e Filosofia, stavo giusto facendo quel tragitto per raggiungere la biblioteca dell’istituto di Storia dell’arte dove andavo a studiare.

Pensavo più o meno svagatamene ai casi miei quando, quasi all’altezza dello sguardo, incrociai una targhetta vicino ad una porta su cui era scritto: Donna come prima. Rimasi per un attimo perplessa davanti alla targa e, nella mia completa ignoranza, congetturai che dovesse trattarsi di una di quelle associazioni oscurantiste che avrebbero voluto promuovere il ritorno della donna come stella del focolare all’ombra di un maschio signore e padrone… Possibile una cosa del genere?!? Lotte femministe, ecc. ecc. e si ritorna a bomba? Scossi un po’ la testa e mi allontanai. Meglio gratificarsi con una bella studiata di storia dell’arte… e non ci pensai più.

Fin dall’età di circa sedici anni ogni tanto, casualmente, mi veniva una domanda alla mente: “Cosa farò nel 2000? Sarà l’inizio del nuovo secolo, io avrò quaranta anni, ma dove sarò?... Cosa farò?... Cosa sarò?...”.

Le ipotesi erano tante e tutte in funzione dell’umore del momento, ma non avevo mai azzeccato quella giusta.

Nell’aprile del 2000 leggevo il risultato della mia prima mammografia e scoprivo di avere un carcinoma maligno al seno destro.

Ricordo la sensazione che ebbi dopo avere letto la diagnosi: ero sull’orlo di un profondo baratro di terrore dove avrei potuto sprofondare. Cosa sarebbe successo? Quanto grave poteva essere la situazione? Quanto avevo da vivere? E come avrei vissuto da lì in poi? Mi sentivo in caduta libera dentro questo abisso.

Questo stato d’animo durò per due o tre giorni, non riuscivo a parlarne con nessuno.

Sono sposata e le mie due figlie avevano allora nove anni la prima e due anni la seconda. Alla fine del quarto giorno di paura incontrollata ho detto: “Signore, devo poter essere accanto a mio marito per poterle crescere, devo aiutarle a prendere in mano la loro vita e camminare con le loro gambe, non voglio partire ora.”

Così il baratro si è chiuso dietro di me, non sapevo cosa sarebbe successo da lì in avanti, sapevo solo che non mi sarei fatta risucchiare dal vortice della paura.

Cominciai col rendere partecipe mio marito della notizia e col prendere contatti per visite specialiste. Il primo specialista che contattai mi mise subito sul binario giusto: ero con mio marito e mentre parlavo col medico, chiedendo spiegazioni riguardo a quadrantectomia e mastectomia, cercavo termini che accuratamente evitassero il concetto di vivere o morire. Il medico piuttosto sbrigativamente e senza mezzi termini mi disse che non si potevano avere certezze assolute di sopravvivenza, che il primo sistema risparmiava una parte del seno e l’altro no, che decidessi e poi si sarebbe proceduto.

Mi sentii come se mi avessero tirato un mattone in testa, rimasi quasi senza fiato, non pensavo che qualcuno mi avrebbe sbattuto la realtà in faccia, guardai mio marito: era nelle mie stesse condizioni. Ringraziammo, pagammo e ce ne andammo in silenzio.

L’auto era parcheggiata lontana e lì vicino c’era un giardinetto, guardai mio marito e gli dissi che non me la sentivo di fare tutto il pezzo a piedi e che l’avrei aspettato lì. Mentre si allontanava vidi che, con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni e la testa incassata nelle spalle, pensando di non essere visto, stava piangendo. Mi fece una grande tenerezza. Ebbi come un sussulto di orgoglio e di ribellione. Mi dissi che non sapevo come sarebbe andata a finire, ma per quel che riguardava me e chi mi stava vicino, avrei cercato di ritagliarmi tutte le piccole felicità possibili, non mi sarei persa nemmeno uno dei sorrisi che potevo fare e ricevere, avrei incamerato gioia come meglio sarei riuscita a fare.

Ovviamente cambiai medico, mi rivolsi al prof. C. che con la sua equipe dell’ospedale di Careggi mi aiutò ad attraversare il guado, ad accettare la mastectomia e lo svuotamento ascellare. Devo dire che non è stato un boccone facile da ingoiare, ma alla fine la maniera si trova.

Ero a Careggi per la visita anestesiologica e stavo aspettando fuori dal reparto del prof. C., quando vidi uscire dalla porta a vetri una donna in camicia da notte da cui si vedeva che aveva un solo seno: accanto alla protuberanza del seno rimasto quel vuoto piatto era così desolato che mi si chiuse lo stomaco. Pensai alla mia femminilità devastata, pensai che non avrei saputo come spogliarmi davanti a mio marito. Era dura, ma la fantasia e l’ironia sono sempre state per me una risorsa, così mi sono trovata una scappatoia.

I miti dell’antichità mi hanno sempre affascinato, mi vennero in mente le amazzoni. Nell’antichità si racconta che si tagliassero un seno per poter poggiare meglio l’arco in battaglia e scoccare con maggior precisione le frecce. Si narra che fossero un gruppo coraggioso e fiero che con impeto difendeva il proprio regno di donne dagli attacchi dei regni vicini.

“Bene!”, mi sono detta, “entro di diritto nel mondo delle amazzoni e di diritto mi spetta il loro orgoglio e il loro coraggio!” E ci ho creduto. Da allora vive in me un’amazzone sempre in sella a un bel cavallo scalpitante che, con la faretra in spalla e l’arco nella mano, non cerca la lotta ma è pronta a difendere il territorio da tutti gli attacchi; dalla cima di una collina spazia con lo sguardo all’orizzonte e guarda lontano verso il futuro.

Ormai sono passati dodici anni dall’intervento chirurgico al seno, sono riuscita ad avere una vita normale, ad ogni mammografia, come tutte, ho il fiato sospeso fino alla risposta e poi proseguo. Per fortuna le cose sono andate bene, sono consapevole che per molte altre donne il percorso della malattia è stato molto più duro e drammatico, quindi penso di poter dire che mi è toccato un fardello non così difficile da portare.

Questa è semplicemente la mia testimonianza.

Ho sempre pensato che, fin dove è possibile, ogni prova che la vita ci riserva va vissuta come un’occasione per evolvere, per progredire. Un’opportunità per sviluppare una nuova, e talvolta anche sofferta, consapevolezza del proprio essere nel mondo, che ci porti a rialzare le spalle, crollate sotto il peso dei propri drammi personali.

Così, nel 2012 la mia amazzone ha trovato una compagna di avventure: una futura dragonessa! La partecipazione al progetto LILT del dragon boat per le donne operate al seno mi sta veramente entusiasmando.

Nell’acqua i timori sembra che si sciolgano e il dragon boat silenzioso ci passa sopra.